EGOMULTIPLES
Mi sono guardato nello specchio, non mi sono riconosciuto e ho salutato, registra Baudelaire, strappato dalla malattia all’abitudine che ci consente di riconoscere ritualmente l’immagine che ci guarda dallo specchio.
Riunendo la stessa persona in differenti posizioni – seduta, in piedi, al tavolo, ecc – nello sfondo che si è scelta, Bertusi trasforma lo spazio in tempo. E raccontare il tempo significa raccontare la solitudine, il vero termometro del tempo.
L’operazione dell’autrice è apparentemente parallela a quella prodotta da un gioco ormai desueto: quei libretti che riproducevano su ogni pagina un’immagine lievemente diversa dello stesso soggetto. Bastava farle scorrere velocemente per ottenere un’immagine in muovimento, una specie di rudimentale cartone animato. Jasmine Bertusi rovescia un simile montaggio e con cio’ isola i soggetti delle sue fotografie dal dinamismo del tempo. Ma non lo fa per isolarli, come i monumenti della sua celebre serie di immagini urbane, in una celeste quanto provvisoria eternità. Lo fa per riconsegnarli alla solitaria frammentazione dei minuti che compone il malinconico mosaico del passato.
La fotografa blocca il libretto del tempo, ma non si limita a farne scorrere lentamente le illustrazioni, eludendo ogni illusione dinamica. Le fa coabitare con impietosa lucidità. In Occidente storia e significato coincidono. Raccontare una persona significa immediatamente raccontarne la storia. Ma i ritratti di Bertusi sono tutte equidistanti dalla solitudine. La loro fittizia staticità elude il vortice di muovimento con cui la nostra società fronteggia il nulla e la morte. Rinuncia stoicamente persino alla confortante nostalgicità che emana dalle brume del ralenti.
Ma è proprio questo a rendere inestimabile l’apparente levità dei ritratti di Bertusi, che in effetti sono lievi grazie a una scelta iconografica in grado di svuotarli dal motore invisibile del movimento. In confronto alle opere dell’artista la tela surreale di Magritte in cui l’uomo che vede nello specchio solo la propria immagine di spalle diventa dimostrazione di un romantico ottimismo. Nei ritratti di Bertusi, Godot non solo non è mai arrivato, ma non ci si è mai fatta la minima illusione su un suo possibile arrivo.
La fotografia viene strappata da Jasmine all’arte di sorprendere il tempo in movimento, condensando la storia in una frazione di immagine. L’artista si dedica a un’operazione infinitamente meno facile e più significativa: restituirci il passato sospeso in tutta la propria insignificanza. Cosi nel momento stesso in cui sembra esaltare narcisisticamente il soggetto, moltiplicandolo, lo umilia svelandole in ognuna delle repliche la sua inessenzialità.
« La fotografia, ha scritto Marcel Proust, acquisice un po’ della dignità che le manca, quando smette di essere una riproduzione del reale e ci fa vedere delle cose che non esistono piu. »
Ovviamente Bertusi esegue questa difficile partitura con l’ironia che pulsa segretamente in tutta la sua produzione di artista giovane ma già estremamente significativa. Un’esercizio alchemico in cui lo spazio viene tramutato in tempo, e quindi un sostanziale capovolgimento del normale esercizio della fotografia.
Il sorriso nascosto che aleggia in questi ritratti è quello del funambolo che, portando la sua arte alle estreme conseguenze, ha bandito dai suoi gesti ogni traccia della fatica e della concentrazione da cui sono nati. La felicità invisibile di sa tradurre la profondità in leggerezza, senza rinunciare ai suoi abissi.
P.S. Chiunque abbia visto Jasmine Bertusi ha potuto verificare di persona la sua lotta col tempo. Come il Napoleone di Paul Morand, l’artista non cammina, ma corre. E la sua mente, come i suoi passi, cerca senza sosta di sorpassarsi. Ma pochi artisti sono consapevoli come lei di quanto il tempo sia superabile soltanto rinunciando a eluderlo per contemplare, come l’Angelo di Paul Klee, le rovine che lascia dietro di sè.









Presentazione di Giuseppe Scaraffia